13.02.16

La “mentalità”  penale

Secondo una Sua dichiarazione apparsa recentemente su La Nuova Sardegna, sarebbe stata una “frase fatta”, della tradizione dei discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario sardo, quella sull’ “istinto predatorio, tipico della mentalità barbaricina”, da Lui  pronunciata, quale procuratore generale della repubblica, in Cagliari, nello scorso gennaio.
Eppure, non pare uomo da “frasi fatte”, o, comunque, non filtrate dalla Sua colta pensosità e riflessività.
Quale quella diffusa.
Già appellare predatore (secondo ogni vocabolario: l’animale), l’umano (“barbaricino”), pone questioni lessicali drammatiche, perché non separabili da altre antropologiche, personologiche, e, anzitutte, etiche.
Peraltro, a prede animali tenderebbe quel predatore, mentre ad appropriazioni patrimoniali,  al “bottino”, propriamente, tenderebbe quello dei veicoli portavalori.
Inoltre, evocare, a forza di questa tensione, la “mentalità barbaricina”, è illogico, perchè:
se la tensione (alla appropriazione) è universale (come il bisogno o il desiderio che la spingono), sarebbe universale la “mentalità barbaricina”?
D’altro canto, gli istinti hanno poco che fare (perché, classicamente, sottostrato della psiche), con la mente (soprastrato); ed ancor meno con il suo prodotto sedimentato, la “mentalità” (quel poco è solo interazione).
E comunque, istinti e mentalità, inscritti, come sono, nella antropoetnologia di una popolazione, e nei saperi relativi, hanno poco che fare con la giuslogia penale, col diritto inerente, e, quindi, con la “competenza” del procuratore generale della repubblica nell’esercizio della funzione (quella inaugurazione).
Oltretutto, il diritto penale è essenzialmente indifferente a quelle parti, della psiche (forse perché determinanti, alle azioni, e, quindi, deresponsabilizzanti). Esso, di fatti, adotta solamente le parti “autodeterminabili” (a suo avviso), e, quindi responsabilizzabili:
adotta la coscienza e la volontà, le (e quali) funzioni della autodeterminazione dell’individuo, del reo persona, affrancato dagli istinti e dai loro sedimenti culturali, libero, responsabile, (quindi) liberamente punibile.
Per ciò, dicendo d’essi, il procuratore generale non ha  parlato la lingua ufficiale.
Nella dichiarazione a “La Nuova” (di cui sopra), egli rivendica di operare  su individui, non su collettività o comunità o etnie. Lo rivendica, peraltro, dopo avere evocato, nel discorso inaugurale, che, i Sardi, sarebbero individualisti, ed anche per ciò non coagulerebbero   associazioni mafiose.
E’ con vivo piacere sociologico, oltre che giuridico e giudiziario, dello scrivente, che, quel magistrato, smentisce un altro, originario della sua stessa terra, la Sicilia.
Costui, “applicato” temporaneamente ad una Corte di Appello sarda (per mentalità  antimafiosa “vedente” la mafia, e, dunque, intuitu personae, e, quindi, giudice speciale?), attestò, in quest’isola, quel tipo di associazione, in (clamorosa) riforma di una sentenza di un tribunale sardo, che la aveva (ineccepibilmente, in fatto e in diritto) esclusa.
E dà altrettanto piacere che, egli, curi il diritto penale degli individui, classico, liberale, e che, quest’isola, glie ne offra la possibilità.
E’, quindi, supponibile che attratto da questa abbia lasciato la Sicilia?
L’isola che, or sono più di trentanni, con lo straripamento di  postulazioni petizioni  pressioni provocazioni mistificazioni propagande, legislative e giudiziarie, inaugurò, in “compromesso storico” Diccì-Piccì (Rognoni-Latorre), il diritto penale “illiberale”, non individuale ma collettivo, non personale ma etnico, non del singolo ma dell’associato, il diritto della colpa di associazione, della responsabilità collettiva?
Il diritto che ha potuto vessare imprigionare confiscare stremare stracciare spazzare le  popolazioni meridionali (in quanto tali “di tipo mafioso”), più dei militi degli “unificatori  del regno” ottocentesco, delle milizie del fascismo novecentesco?
Il diritto della preistoria (ma anche della modernità nazista)?
E’ supponibile, che la abbia lasciato per dissenso….
D’altronde, ha il merito di avere inaugurato, con l’anno giudiziario, il giudizio del popolo. Che si ricordi, il primo, per fermezza estensione densità fierezza contrarietà “soberanìaria”.
Quel popolo ha inteso promuovere (sociopoliticamente) il vincolo di mandato, su chi agisca a suo nome e suo massacro, il controllo del suo esercizio, fino alla revisione od alla revoca (ove occorressero)?
Un popolo semplicemente rivoluzionario, il sardo, se ciò avesse, pur solo oggettivamente,  inteso.
Universalmente rivoluzionario, tanto quanto è universale il diritto penale illiberale (o, invero,   “liberale”),  universalmente “predatorio”, di prede umane, contrumano, inumano.
“Predatoria” la sua parte “barbaricina”?

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